Alternanza scuola lavoro. La scomoda verità che non piace agli studenti

Trieste – A sentire le parole “alternanza scuola-lavoro” si è tentati di dire: finalmente! I giovani sapranno cosa vuol dire lavorare, stancarsi, guadagnarsi il pane col sudore della fronte etc. etc.

Nella fattispecie si tratta dell’obbligo di 400 ore (per gli istituti tecnici) e 200 ore (per i licei) esteso a circa 600.000 studenti da mandare a “scuola di lavoro” presso le imprese – pubbliche o private – che si rendano disponibili ad accoglierli nel mondo dei mestieri.

Oppure, da un altro punto di vista, saranno obbligati a svolgere mansioni anche degradate e degradanti, per nulla qualificanti ed estranee al percorso didattico formativo inerente alla scuola scelta e che, talvolta, li espongono ai pericoli delle molestie. Ma, soprattutto, non retribuite.

C’è chi saluta questa novità della legge 107  come un benefico tocca e sana pedagogico, come l’integrazione didattica che ci voleva per aggiustare la scuola ai tempi moderni e come la salvezza dalla terribile crisi dell’occupazione in Italia.

In effetti l’alternanza scuola-lavoro era già contemplata nel decreto legislativo n.77 del 15 aprile 2005, approvato durante il governo Berlusconi II, il che rende chiara la comunione d’intenti tra il governo del Cavaliere e il governo del Rottamatore, riconducibili alle linee programmatiche europee contenute e previste nel Libro bianco di  Édith Cresson  “Insegnare e apprendere” del 1995, e anticipate da Jacques Delors nel 1993 come indicate a Maastricht nel ’92.

A guardarla da vicino, non appare come la soluzione auspicata dal governo Renzi e dalla sua ministra Giannini per “incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti” come recita la legge al comma 33.

La situazione è complicata da disegnare, essendo che il tessuto produttivo e distributivo italiano è molto vario e disomogeneo. Infatti è intuibile che la Lombardia offrirà una scelta di percorsi di alternanza diversi dalla Sicilia o dal Friuli Venezia Giulia, con differenze anche all’interno della stessa regione.  È ovvio quindi che, a esempio, gli studenti triestini o goriziani avranno opportunità diverse da quelli udinesi o pordenonesi.

In ogni caso, dice il decreto, “I percorsi in alternanza sono oggetto di verifica e valutazione da parte dell’istituzione scolastica o formativa”. Quindi non si scappa: l’obbligo c’è e bisogna obbedire.

Ma obbedire a cosa?

All’interno del percorso, quindi, la varietà di occasioni è dettata dall’appartenenza dello studente al territorio e, quindi, del tutto casuale. La prova è che ci sono esperienze di alternanza opposte per gradimento e adeguatezza, visibili anche a occhio nudo e dettate dal caso.

Per esempio, studenti soddisfatti di frequentare il Corriere della Sera di Milano, o Palazzo Grassi di Venezia oppure la Caritas di Roma. Altri che passano dal liceo classico, per tre giorni, in una raffineria, oppure in un albergo milanese, in aziende tessili, a una Asl come surrogati di assistenti sociali, o a servire caffè in un autogrill o a fare fotocopie… Quando va bene…

Esperienze che gli studenti tendono a “eludere”, e spesso con l’appoggio dei genitori.

Per constatare le differenze è sufficiente fare una semplice ricerca per provincie sul Registro Unico delle imprese che offrono tali possibilità. E già qui si parte con una chiara disparità geo-economica di occasioni che generano una competizione (spesso acuta) tra scuole della stessa provincia e una corsa a stipulare convenzioni con le aziende più appetibili che offrirebbero ai dirigenti scolastici l’opportunità di mettersi in regola con la legge.

Ma a che prezzo? E qui si aggiungono altre complicazioni.

Gli studenti, attraverso le loro associazioni, fanno conoscere la scomoda verità che “la legge 107 non va a implementare esperienze di alternanza scuola lavoro realmente formative e attinenti al loro percorso di studi”  e “che spesso si fa l’alternanza scuola lavoro in aziende che non hanno le competenze per insegnare e in percorsi formativi che non hanno attinenza con il percorso di studi intrapreso”.

Ciò che si vuole gli studenti acquisiscano, non sono  profonde conoscenze critiche ma semplici e superficiali “competenze”  che ne facciano dei lavoratori obbedienti e flessibili per “mobilità” e compenso, in linea con la preparazione nozionistica introdotta e indotta dal sistema dei test Invalsi e, purtroppo, dal moderno sistema concorrenziale e liberistico.

Infatti, e non è un caso, il Comitato per il monitoraggio e la valutazione dell’alternanza scuola-lavoro si cooordina – per effetto del decreto citato –  con l’Istituto nazionale di valutazione del sistema dell’istruzione ovvero INVALSI.

Difficile è mascherare tutto questo da progetto didattico pedagogico culturale e sovrastorico, pur con la retorica pomposa impiegata a suo tempo dalla ministra Giannini – che cita le botteghe rinascimentali paragonandole alle Coop – coadiuvata dai potenti mezzi mediatici del Miur (qui il video di presentazione de “I campioni dell’alternanza).  Difficile, quando dalla parte opposta una nota della CGIL sostiene che al Sud – ma anche nel resto d’Italia – c’è il rischio che l’alternanza si trasformi in un serbatoio di lavoro gratuito.

Difficile. Anzi impossibile se si aggiunge che gli studenti moderni sono sensibili a tematiche ambientali, ecologiste, sociali e umanitarie per cui risulta arduo immaginare che possano aderire alle filosofie aziendali di multinazionali come McDonald o Zara, due tra le maggiori aziende che offrono i percorsi.

È per questo che gli studenti non vogliono prestare la loro opera presso “quelle aziende ed enti che peccano in quanto a tutela dell’ambiente, investimenti in formazione e rispetto per i lavoratori, in cui ci costringono a fare l’alternanza scuola lavoro.”

Per uno studente, collaborare – seppure per 200 o 400 ore – con un’azienda implicata nello sfruttamento del lavoro minorile o dei lavoratori in Bangladesh, nella deforestazione dell’Amazzonia o nello sfruttamento intensivo di allevamenti animali e nella loro macellazione, o nella somministrazione di cibi non salutari, potrebbe rappresentare un caso di coscienza e di consapevolezza civile e politica.

Recentemente, in un liceo triestino, una parte di studenti si è rifiutata di partecipare a una “lezione e discussione” tenuta da una multinazionale della ristorazione dimostrando la propria contrarietà con un sit.in.  Non hanno voluto credere alla circolare del dirigente che evidenziava la “rilevanza e prestigio dell’Azienda invitata”.

Le aziende multinazionali che propongono i percorsi di alternanza lo fanno certi della loro penetrazione capillare e lo fanno con la stessa retorica acuta della ministra Giannini ma vi aggiugono una competenza comunicativa affilata e precisa come un bisturi. È la legge del marketing.

Ma qualunque sia l’azienda che propone i percorsi di alternanza scuola-lavoro, la domanda critica che questi casi pongono è se l’obiettivo didattico e pedagogico di questa legge, se il fine di ridurre la disoccupazione giovanile possano consistere ed esaurirsi nell’acquisizione di soft skills, di competenze trasversali, di customer care ovvero – in parole povere – nel saper accogliere e assistere un cliente, o intrattenere dei bambini a una festa di compleanno, o aiutare a fare un ordine elettronico, delle fotocopie, un volantino.

In questi casi di alternanza scuola-lavoro sarà prevista l’obiezione di coscienza? Intanto si sciopera.

[Roberto Calogiuri]

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