A scuola d’estate in calzoni corti. Ma non è il peggiore dei mali

Trieste – Se la scuola deve rimanere aperta anche in estate, come vogliono la ministra Fedeli e la responsabile scuola di Forza Italia, Elena Centemero, bisognerà allargare le maglie del decoro formale, modificare le coordinate del codice di abbigliamento scolastico, adeguarlo alla variabile climatica se non – affare di non poco conto ma che sembra essere sottovalutato – modificare il contratto collettivo nazionale.

O, addirittura, dotare gli edifici scolastici di impianti di climatizzazione – una chimera considerato il bilancio dello Stato.

Perché, con le bombe di calore previste e il riscaldamento globale che incalza, non si potrà impedire agli alunni di presentarsi nelle classi – in luglio e agosto – in calzoni corti, gonne corte, infradito o pareo.

Lo capiranno gli strateghi di Lisbona e le politiche scolastiche dell’Unione Europea, che l’Italia si trova in una fascia climatica che abbisogna di deroghe alle direttive centrali? La Commissione per la formazione e la cultura aprirà i suoi standard a sandali e pareo?

A Trieste, correva l’anno 2013, un istituto scolastico parificato aveva tentato la carta delle lezioni private estive (quelle per sanare i debiti di giugno) direttamente in costume da bagno. Infatti le lezioni erano impartite sul litorale, tra i pini ameni della riviera giuliana, a pochi metri dalle fresche acque del golfo. Scarso, se non scarsissimo, il successo, nonostante le lezioni fossero previste proprio durante la canicola.

Qualche anno prima, era fine maggio, – sempre in tema di compatibilità ambientale – il preside di un istituto triestino impedì l’ingresso a scuola di un gruppo di studenti in calzoni corti. Questi invocarono l’intervento degli agenti della Digos che mediarono le trattative con il vice preside. Alla fine, le forze di polizia riuscirono a far entrare gli studenti che reclamavano il godimento del proprio sacrosanto diritto allo studio.

Il tutto in barba a una circolare che qualche giorno prima era passata per le classi dove – si leggeva – “si invitano allieve ed allievi dell’istituto ad indossare un abbigliamento adeguato durante le lezioni”.

Quindi, la forza di una circolare interna – pur sotto la forma blanda di un invito – è inferiore alla legge che sancisce i diritti costituzionali dei cittadini italiani. Siano in giacca e cravatta o in calzoni corti, canottiera e pance di fuori.

Pochi giorni fa, in una scuola del Veneto, la preside è riuscita a far rispettare “quasi” a tutti i 1000 studenti il “dress code” scolastico. Niente abbigliamento da spiaggia, a meno di cambiare il regolamento intervenendo sul consiglio d’istituto.

La conciliazione tra la regola interna e il diritto del singolo è solo una delle contraddizioni che si verificano nella scuola. In definitiva la domanda è: la scuola è ancora una fonte normativa del comportamento dei futuri cittadini? Sarà la scuola a formare i cittadini o i cittadini a riformare la scuola? E quando un modo di vestirsi è considerato indecoroso?

Per ora, nelle scuole – ma si respira ormai aria di mare – si vede un gran numero di studentesse e studenti in tenuta balneare. In effetti, non in tutti gli istituti il regolamento interno prevede divieti o indicazioni sull’abbigliamento. Forse perché, come si è visto, non servono a nulla. O forse perché l’indicazione da sola non basta senza una seria e capillare volontà di farla rispettare.

Sempre che ciò non rappresenti una insanabile opposizione tra norma scolastica e consuetudine del mondo esterno.

Le altre contraddizioni sono (forse) più gravi e sono quelle che già si conoscono. La scuola rimane il luogo dei conflitti per ora insoluti. Maestre che schiaffeggiano bimbi, bimbi che schiaffeggiano maestre. Insegnanti che insultano genitori e genitori che insultano insegnanti. Docenti sempre più biasimati.

Su tutto, campeggia la previsione di un sindacato che stigmatizza come l’anno che sta per finire sia stato un disastro e prevede con sicurezza che il prossimo andrà ancora peggio.

Con il prossimo settembre, studentesse e studenti torneranno in calzoni lunghi e abiti “consoni”.  Il problema del decoro scolastico sarà facilmente rimosso, almeno per altri nove mesi.

Invece, non sarà altrettanto facile far rientrare precariato e supplentite, sanare le proteste contro invalsi, chiamata diretta dei presidi e comitati di valutazione, coprire le poltrone vacanti dei dirigenti, prevedere la ricaduta dei decreti attuativi della legge 107/2015, far quadrare il numero esiguo degli insegnanti di sostegno rispetto agli alunni disabili, mandare avanti le scuole senza organici completi del personale di segreteria e degli assistenti scolastici. Risolvere l’agibilità e la sicurezza degli edifici scolastici, i problemi delle mense e delle merende portate da casa, la questione dei vaccini…

Per non parlare dell’alternanza scuola-lavoro, o della riduzione a quattro anni del curriculum liceale, l’adozione del test invalsi al quarto anno del liceo e la riforma dell’esame di stato.

E dire che – sostengono molti osservatori politico istituzionali – La Buona Scuola è stato l’unico vero successo del governo Renzi.

Roberto Calogiuri

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