Gradisca d’Isonzo, il CPR di nuovo nella bufera, il video diffuso in rete riaccende lo scontro politico
Gradisca d’Isonzo (Go) – Le immagini pubblicate il 18 giugno da la Repubblica e rilanciate dalla rete No CPR hanno riacceso le polemiche sul Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Gradisca d’Isonzo (Gorizia). Nel video si vede un uomo in mutande correre tra le celle inseguito da agenti in tenuta antisommossa. Una volta raggiunto, viene immobilizzato e successivamente ripreso a terra. Il caso, che si sarebbe verificato il 16 giugno, ha suscitato un’immediata reazione da parte del mondo politico e della società civile.
Da più parti si chiede un’indagine rapida e approfondita. La deputata del Partito Democratico Debora Serracchiani ha parlato di “fatti gravissimi che devono essere chiariti”, mentre la consigliera regionale Serena Pellegrino (Alleanza Verdi Sinistra) ha chiesto ispezioni indipendenti e la chiusura definitiva della struttura, definendola un “luogo di violenza strutturale”. Dure anche le parole del consigliere Furio Honsell: “Anche se tale barbarie non dovesse più ripetersi, non possiamo dirci umani se manteniamo strutture crudeli come queste”. In una nota, Sinistra Italiana FVG ha parlato di “fabbriche di sofferenza” e annunciato un’interrogazione parlamentare urgente.
Nel CPR di Gradisca, già da mesi, si registrano condizioni critiche: proteste, rivolte, danneggiamenti, casi di autolesionismo e una sospetta epidemia di scabbia. Gli spazi comuni sono limitati, la mensa è inutilizzata e la struttura – con una capienza di 77 posti – viene definita da più fonti come fatiscente, con gravi carenze strutturali e impianti danneggiati.
A difendere l’utilità del CPR e l’operato degli agenti è invece il Sindacato Autonomo di Polizia (SAP), che respinge con decisione le accuse rivolte alle forze dell’ordine. Secondo il SAP, “le accuse di violenza risultano infondate” e rappresentano “l’ennesima diffamazione strumentale, prodromica alla chiusura dei CPR da parte di chi appartiene al partito dell’anti-polizia”.
Il sindacato sottolinea inoltre la necessità di mantenere attiva la struttura e chiede l’avvio di urgenti lavori di ristrutturazione, possibilmente per comparti, in modo da non interrompere il servizio. A sostegno dell’efficacia dei CPR, il SAP richiama anche un episodio avvenuto nelle scorse settimane, in cui un uomo di nazionalità tagika, trattenuto proprio a Gradisca, è risultato sospettato di appartenenza a una cellula dello Stato Islamico del Khorasan. Un caso del tutto distinto rispetto al video diffuso, ma che per il SAP “certifica quanto i CPR siano strutture indispensabili per il rimpatrio di chi, oltre a essere irregolare, delinque e mina la sicurezza del Paese”.
Resta comunque alta la tensione intorno alla gestione di questi centri. La detenzione amministrativa prevista nei CPR – misura restrittiva applicata in assenza di condanna penale – continua a sollevare perplessità da parte di giuristi e associazioni per i diritti umani, che ne mettono in discussione la compatibilità con i principi costituzionali e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il trattenimento può durare fino a 180 giorni, in condizioni spesso paragonabili a quelle carcerarie, ma senza le stesse garanzie procedurali.
Nel frattempo, il Prefetto di Gorizia ha manifestato l’intenzione di procedere con una ristrutturazione integrale del centro, ipotesi che comporterebbe una chiusura temporanea e lo spostamento dei trattenuti in altre strutture. Mentre il dibattito prosegue, tra richieste di chiusura e appelli alla sicurezza, le immagini diffuse mostrano una realtà che, comunque la si pensi, non può essere ignorata.
Il sindaco di Gradisca
Anche il sindaco di Gradisca d’Isonzo, Alessandro Pagotto, è intervenuto sulla vicenda, esprimendo una posizione critica nei confronti della presenza e gestione del CPR all’interno del territorio comunale. In più occasioni, il primo cittadino ha sottolineato come la coabitazione forzata con due strutture di accoglienza e trattenimento – CPR e CARA – sia un peso rilevante per una cittadina di poco più di 6.000 abitanti, con forti ripercussioni sul tessuto sociale e sulla sicurezza.
Pagotto ha definito le condizioni di detenzione nel centro “poco degne per la gestione di vite umane”, e pur riconoscendo che vi siano trattenuti accusati di reati gravi, ha evidenziato come molti siano semplicemente privi di documenti validi. Ha richiamato l’attenzione sul disagio vissuto non solo dai migranti, ma anche dai lavoratori del centro e dalle forze dell’ordine, ribadendo – anche tramite mozioni ufficiali del Comune – la richiesta di chiusura del CPR.
«Restiamo umani» è lo slogan, ha ricordato, che meglio rappresenta il sentimento diffuso nella comunità locale e nella recente manifestazione contro il centro. Chiarendo che la gestione dell’immigrazione non può gravare sui Comuni, Pagotto ha auspicato un maggiore impegno statale e diplomatico per velocizzare i rimpatri, riducendo il tempo massimo di detenzione – oggi fino a 18 mesi – e prevenendo condizioni che generano sofferenze e percezioni di ingiustizia.
Cos’è la detenzione amministrativa nei CPR
La detenzione nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) è di natura amministrativa, non penale: viene applicata a persone irregolarmente presenti sul territorio italiano per consentire l’esecuzione di un provvedimento di espulsione. I trattenuti nei CPR non sono accusati di reati, ma privati della libertà personale in seguito a decisioni dell’autorità amministrativa, come l’assenza di un permesso di soggiorno.
Questa forma di trattenimento può durare fino a 180 giorni, con eventuali proroghe, e non prevede le garanzie tipiche di un processo penale, come il diritto alla difesa o la convalida immediata da parte di un giudice. Le condizioni di vita nei CPR sono spesso criticate: sbarre alle finestre, spazi limitati, forte isolamento e restrizioni simili a quelle carcerarie, pur non trattandosi di strutture penitenziarie.
Organizzazioni giuridiche e umanitarie, come l’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), segnalano il rischio di violazione dei diritti fondamentali, evidenziando la scarsa compatibilità di questo regime con la Costituzione italiana (art. 13) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 5). A ciò si aggiunge una gestione affidata a enti privati, con limitata trasparenza e difficoltà di accesso per osservatori esterni.
Sebbene non configurata come pena, la detenzione amministrativa può avere effetti psicologici e sociali gravi, alimentando disagio, autolesionismo e tensioni all’interno dei centri.