Fincantieri a Monfalcone: crisi d’identità per la sinistra? Il caso politico
Negli ultimi anni, una parte significativa della sinistra italiana sembra attraversare una fase di smarrimento culturale e politico. Un tempo questo campo aveva un legame solido con i mondi del lavoro, della produzione e delle realtà industriali; era il punto di riferimento per chi rivendicava diritti, tutele contrattuali e maggiore equità sociale. Oggi, invece, una porzione di quell’area appare meno radicata in quei temi, preferendo concentrarsi su questioni legate alle identità, alle appartenenze comunitarie o alle categorie simboliche. In altre parole, ciò che un tempo era una politica costruita attorno a rivendicazioni di classe e solidarietà collettiva, ora sembra muoversi attorno a narrazioni che talvolta ricalcano, seppure in versione moderata, il linguaggio della destra.Il risultato è una perdita di riconoscibilità, che rischia di indebolire ulteriormente la capacità della sinistra di essere interlocutrice credibile per il lavoro e per l’impresa.
Il caso di Monfalcone è, da questo punto di vista, particolarmente emblematico. In questa città del Friuli-Venezia Giulia si trova uno dei poli industriali più importanti del gruppo Fincantieri, nello stabilimento di Panzano. Qui operano oltre 5.000 addetti, tra dipendenti diretti e personale impiegato attraverso appalti e subappalti. Si tratta di un sistema produttivo complesso, internazionale per vocazione e profondamente radicato nel territorio. Negli ultimi giorni però la discussione pubblica locale si è infiammata a seguito di una mozione presentata dalla Lega e firmata anche da esponenti della sinistra. Il documento invita Fincantieri a modificare il proprio modello organizzativo, in nome di un presunto “riequilibrio sociale” che dovrebbe tener conto della presenza di numerosi lavoratori stranieri.
Questa convergenza inaspettata tra forze politiche che fino a poco tempo fa si collocavano su fronti contrapposti ha sollevato interrogativi e critiche. Secondo diversi osservatori, l’idea di intervenire sulle modalità produttive dell’azienda sembra rispondere più a una logica simbolica che a una reale conoscenza dei processi industriali. Fincantieri, ricordano in molti, è un gruppo internazionale con cantieri e sedi in più di venti Paesi: orientarne le strategie dall’esterno, senza considerare le dinamiche globali della produzione navale, appare più un tentativo di ottenere visibilità politica che una misura concreta.
Non a caso, l’amministratore delegato del gruppo, Pierroberto Folgiero, ha risposto in modo netto, sostenendo che l’azienda è stata trasformata in una sorta di palcoscenico per contese ideologiche e per messaggi destinati più all’opinione pubblica che ai lavoratori. Sulla stessa linea anche Michelangelo Agrusti, presidente di Confindustria Alto Adriatico, che ha ricordato come la presenza di molti dipendenti provenienti dall’estero non sia frutto di una scelta di convenienza, ma della difficoltà cronica di trovare manodopera locale disposta a svolgere determinate mansioni. “Quei posti ci sono, ma gli italiani non li vogliono coprire”, ha ribadito, sottolineando un fenomeno noto da anni nel settore industriale.
Nonostante ciò, nel dibattito pubblico i progressi compiuti da Fincantieri sul piano della sicurezza, dell’innovazione, dei servizi aziendali e dei progetti di integrazione raramente trovano spazio. Negli ultimi anni sono stati attivati percorsi di mediazione linguistica e culturale, investimenti in formazione e iniziative per migliorare la qualità della vita dei lavoratori. Tuttavia, queste informazioni vengono spesso oscurate da narrazioni conflittuali che oppongono lavoratori italiani e stranieri, alimentando tensioni che non rispondono alla realtà quotidiana dei cantieri.
Il rischio complessivo è che il lavoro, da valore condiviso e punto di incontro tra forze politiche diverse, finisca per essere utilizzato come strumento di divisione. La contrapposizione ideologica sostituisce la discussione concreta sulle strategie industriali, sulla qualità dell’occupazione e sulle prospettive di sviluppo. Monfalcone diventa così il simbolo di una sinistra che fatica a ritrovare la propria bussola e di una politica che preferisce la battaglia identitaria alla costruzione di soluzioni reali.
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