Referendum dell’8 e 9 giugno, occasione di democrazia. Una più 5 ragioni per partecipare
FVG – L’Italia attraversa da tempo un clima di allontanamento dalla politica: lo dimostrano i numeri, impietosi, che registrano un costante calo della partecipazione al voto. È sotto gli occhi di tutti: nei cinque referendum sulla giustizia del 12 giugno 2022, l’affluenza definitiva si è fermata al 20,9%, il dato più basso nella storia del nostro Paese. Un risultato talmente esiguo da rendere invalide le consultazioni, visto che il quorum del 50% degli aventi diritto rimaneva un traguardo lontanissimo. Ma non si tratta di un episodio isolato: paragonando le ultime elezioni politiche, nel 2018 l’affluenza si era attestata al 72,93%, mentre nel 2022 è calata a 63,91%, segnando un tracollo di oltre nove punti percentuali. Anche nelle amministrative del 2021 si è registrato un record negativo: al primo turno, solo il 54,69% degli elettori si è recato alle urne, contro il 65,62% del 2020 e il 67,68% del 2019.
Questi numeri dicono una sola cosa: chi tace, rinuncia alla propria voce di cittadino, ed è su questa consapevolezza che vorrei soffermarmi, invitando tutti a partecipare ai referendum dell’8 e 9 giugno.
Partecipare non è soltanto un dovere civico, ma un gesto di responsabilità verso le generazioni future. Nell’ultimo decennio abbiamo visto un progressivo disinteresse: dal referendum costituzionale del 2016 (65,47% di affluenza) a quello sul taglio dei parlamentari del 2020 (53,78%), fino al disastroso 20,9% del 2022, i numeri ci dicono che la fiducia nella politica si è erosa. Eppure, rinunciare al voto significa lasciare il campo a chi preferisce il silenzio o l’astensionismo: vuol dire delegare le scelte più delicate – come le riforme su giustizia, lavoro e cittadinanza – a una minoranza di elettori convinti. Per i giovani, che guardano al futuro con meno speranze di un tempo, questa tendenza è un allarme rosso: il nostro Paese ha bisogno di ritrovare un “costume partecipativo”, per fare in modo che le istanze del lavoro, della giustizia e dell’inclusione non vengano cancellate dal primo vento di disillusione.
Ritengo che tutti i 5 referendum abbiano in comune una forte valenza di rivalutazione delle condizioni di dignità e di rispetto dei lavoratori più esposti, quindi più deboli, incluso il referendum sulla cittadinanza, che permetterebbe a tanti migranti già ben inseriti nel lavoro di avere un tempo ragionevole per acquisire i pieni diritti civili nel nostro Paese.
Il primo è funzionale ad una maggiore tutela di chi viene licenziato illegittimamente in imprese con più di 15 dipendenti, per cui è prevista la possibilità di un reintegro in caso di un verdetto giudiziario favorevole al lavoratore licenziato; nel secondo si parla di aprire la possibilità di un indennizzo più ampio a giudizio del giudice in aziende con meno di 15 dipendenti. Il terzo riguarda la possibilità di ridurre i contratti a tempo determinato, che sono comprensibili per i lavori stagionali , ma non possono diventare la normalità per le attività continuative. E poi il quarto quesito, quello sulla sicurezza, che cerca di allargare la responsabilità e il controllo sugli infortuni, molto frequenti nei appalti a cascata. Il quinto è un giusto riconoscimento ai migranti stabili, che intendono esserlo anche come cittadini italiani.
I promotori dei referendum hanno inteso dare voce all’esigenza di riaffermare la dignità del lavoro, un principio caro alla nostra Costituzione (art. 1 e art. 4), ma spesso tradito dai contratti a termine che diventano norma anziché eccezione. In Italia la precarietà crescente scoraggia i giovani e mina la fiducia di tutti i lavoratori: l’articolo 36 della Carta costituzionale garantisce una “retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro”, eppure molti contratti a tempo determinato non riconoscono nemmeno il minimo di sicurezza. Pensiamo all’esempio spagnolo, dove la quasi totale eliminazione del contratto a termine ha costituito un volano per la stabilità occupazionale e lo sviluppo d’impresa.
In questo contesto la questione migratoria non può essere ignorata. Una storia per esemplificare: ho conosciuto personalmente Ahmed, un giovane del Senegal giunto qui con il volto segnato da mille difficoltà e la voglia di costruirsi una vita dignitosa. Racconto spesso di lui perché la sua esperienza parla da sé: venditore ambulante di collanine e accendini di fronte a un supermercato, sorridente con tutti, con il tempo si è guadagnato la fiducia di un gruppo di persone, divenute poi sue amiche, che gli hanno permesso di uscire dalla clandestinità con un lavoro regolare presso lo stesso supermarket. Da quel momento, la sua vita è cambiata: sposato, padre di tre figli, è un dipendente esemplare. Con Ahmed ho condiviso la gioia del piccolo traguardo di una bandiera italiana consegnatagli dal sindaco, in attesa del riconoscimento ufficiale della cittadinanza. La sua integrazione non è solo un fatto personale, è un segnale tangibile che l’accoglienza e la solidarietà possono creare ponti, non muri. Quando si parla di migranti voglio mettere in chiaro una cosa: non sono un “peso”, ma una risorsa. Ancora nel 2015, in Italia, pur con un saldo naturale negativo di quasi 300.000 persone, l’acquisizione di cittadinanza da parte degli stranieri ha compensato in parte tale deficit, portando 66.000 nuovi cittadini (dati Istat).