L’Istria come Chioggia nelle “Baruffe” in scena al Teatro Sloveno di Trieste

Trieste – Se è un obiettivo della commedia goldoniana l’essere rappresentazione verace dei colori che ritraggono la società, si può certo affermare che «Baruffe», in scena al Teatro Sloveno di Trieste, ne è fedele interprete, dipingendo con vivide pennellate il quadro antropologicamente studiato di una comunità di pescatori istriani.

Si tratta della felice operazione drammaturgica del croato Predrag Lucić, giornalista, autore e molto altro che nelle abili mani del regista sloveno Vito Taufer, riscrive le vicende chiozzotte in contesto di un non meglio precisato villaggio dell’alto Adriatico, dove le lingue vernacolari dei popolani sono dialetti sloveni, croati e istro-veneti in un amalgama tale che quasi di necessità impone all’idea di regia un ritorno a quel passato di fine impero asburgico, dove gli ibridismi linguistici erano la quotidianità, senza perciò diluire le tensioni esistenti fra i diversi gruppi etnici e culturali.

La cornice sembra quindi soffermarsi su quella pagina di storia che sarebbe stata scritta tragicamente con la Grande Guerra e che avrebbe aperto le porte a nazionalismi e divisioni drammatiche di cui ancora oggi portiamo le ferite in queste terre di confine, ma il contenuto della commedia rimane leggero, gustoso, divertentissimo.

Lo spettacolo ha debuttato lo scorso venerdì 1° dicembre a Trieste ed è il frutto di una proposta artistica firmata da cinque importanti motori culturali quali, oltre al TSS di Trieste, il Teatro nazionale sloveno di Nova Gorica, il Teatro di Capodistria, il Teatro nazionale istriano-Teatro municipale di Pola e il Festival estivo del Litorale.

La scommessa decisamente vinta dalla produzione è presentare un testo multilingue, nel quale trovano spazio anche il tedesco, l’ungherese e l’italiano idiomi del «Canceliere criminale» e dei suoi luogotenenti; il tutto senza guidare gli spettatori con i sopratitoli.

Anzi, essi sono fatti parte di quella comunità di pescatori soffocata fra i muri e i balconi di due case, che come mondi dialetticamente opposti eppure affacciati l’uno sull’altro, si accapigliano e si amano.

Le sedie su cui ricama siora Paškua o dove la Keka ironizza pettegola sulla fedeltà di Lucijeta a Dovanin sono accanto alle sedie del pubblico, tutta l’azione avviene in mezzo agli astanti e allo stesso tempo ciascuno si ritrova al centro di quel campiello, coinvolto nelle loro baruffe, commosso per le lacrime dei loro dolori d’amore, infastidito, fin turbato per la violenza di quelle relazioni di vicinato così dure, comiche eppure tragiche.

È facile riconoscere così quanto possano essere effimere le relazioni di buon vicinato, i rapporti familiari, i legami fra uomini e donne. E come d’improvviso, diventa lapalissiano che la cornice storica di quel secolo apparentemente lontano è soltanto un pretesto: nell’oggi delle nostre relazioni si riflette il fil rouge di una tragica ironia, satira di una società che pare abbia bisogno di un’autorità imposta dall’alto per riuscire a gestire le azioni e i sentimenti, anche a costo di rinunciare alla propria autodeterminazione in cambio soltanto di un po’ di denaro o di una vita tranquilla.

Il gioco è intessuto con maestria dagli attori che mantengono altissimo il ritmo dello spettacolo impegnando fruttuosamente una grande energia e cogliendo ed esprimendo al meglio ogni piega dei coloriti personaggi che interpretano.

Gojmir Lešnjak Gojc è «paron» Tone sposo di donna Paškua nell’intensa interpretazione di Marjuta Slamič; l’altro capo famiglia è Serdo di Iztok Mlakar, che manenendo la caratteristica dell’originale goldoniano di non farsi capire nemmeno dai suoi compaesani per il modo curioso di parlare, è capace delle più divertenti trovate comiche da vecchia scuola di teatro.

A lui si accompagna Libera, un’eccezionale Nataša Tič Ralijan. Molto bravi Rok Matek, il Pepi, Elena Brumini, Urša, la Keka di Nika Ivančić e Luka Cimprič che interpreta Šime.

Divertenti la guardia ungherese di Gorazd Žilavec e il carabiniere di Andrej Zalesjak. Non si può non sottolineare la prova d’attore data da Igor Štamulak nel ruolo del canceliere asburgico, così come rimangono davvero indimenticabili l’ironia fanciullesca e malinconica dell’ottimo Kristijan Guček, un dolce e violento Dovanin, contrastato fra emozioni d’amore e bisogno di attestare la propria virilità, e Patrizia Jurinčič Finžgar capace di mostrare il volto trasparente e introspettivo della focosa Lucijeta.

Sentimenti, parole, schiaffi, carezze, bocconi dolci di zucchero filato e colpi feroci di bastonate in testa: nessuno fra gli spettatori, indipendentemente dalla propria lingua, lamenta alla fine di non capire proprio tutte le battute dei protagonisti, quasi dando retta a Goldoni che del difficile idioma di Chioggia delle sue Baruffe scriveva: «i veneziani capiranno un poco più; gli esteri o indovineranno o avranno pazienza. Io non ho voluto cambiar niente né in questo, né in altri personaggi, poiché credo e sostengo che sia un merito della commedia l’esatta imitazione della natura».

In scena a Trieste fino al 15 dicembre prossimo.

Marzio Serbo

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