Giornata della Montagna 2023, le associazioni denunciano opere deturpanti nelle nostre Alpi

Udine – In occasione della Giornata della Montagna 2023, quest’anno dedicata al tema “Ripristino degli ecosistemi di montagna” (uno degli obiettivi delle Nazioni Unite al 2030 ed anche oggetto di una direttiva europea in dirittura d’arrivo sul “Ripristino della natura”) le associazioni Italia Nostra, Legambiente, Mountain wilderness, Salviamo i sentieri 227 228 e WWF denunciano una serie di progetti realizzati e programmati nelle montagne del Friuli Venezia Giulia che ritengono profondamente sbagliati e dannosi  in quanto, a seconda dei casi, sottraggono valore e bellezza agli ecosistemi, aumentano i rischi di dissesto idrogeologico, ritardano i processi di adattamento alla crisi climatica.

È una battaglia che le associazioni hanno fatto con approccio basato sulla scienza ( con controrelazioni tecniche), sulla partecipazione dei cittadini (con raccolte di firme), sulla ricerca di interlocuzione, in alcuni casi con proposte di mediazione con le istituzioni e infine con ricorsi e segnalazioni alla giustizia amministrativa, contabile e penale.

Nella relazione che segue, che riportiamo integralmente, le associazioni descrivono in sintesi alcuni casi.

Strada forestale a 1600 mt slm tra Malga Tuglia e il Rifugio Chiampizzulon

Relegato alle stanze dei burocrati e di alcuni amministratori della Carnia il progetto per la realizzazione di una strada forestale di primo livello per il transito di autotreni a 1600 mt slm tra Malga Tuglia e il Rifugio Chiampizzulon da embrione diventava progetto esecutivo senza alcun coinvolgimento delle comunità interessate e dei portatori di interesse.

Nessun parere veniva richiesto a chi per altro si sarebbe visto “espropriare” di un sentiero, il sentiero CAI 227, inserito nel catasto sentieri regionale e dichiarato impraticabile per frane. In spregio al vincolo idrogeologico e valanghivo, alla inesistenza di boschi da tagliare, alla fragilità ma anche alla bellezza che rendevano quella specifica area uno scrigno inviolato e preziosissimo e nonostante l’evidente impraticabilità tecnica nel poter realizzare un’infrastruttura sostenibile, integrata nell’ambiente, sicura e fruibile per la collettività, le amministrazioni coinvolte, i tecnici impegnati e l’impresa procedevano nell’opera di distruzione. Metà di tale tracciato è stato concluso ancora in settembre 2023. La restante parte al momento risulta realizzata ma abbandonata a se stessa dopo essere stata chiusa. L’intero tracciato oggi, dopo pochissimi mesi dal rientro a valle delle ruspe, risulta travolto dalle colate detritiche lungo i canaloni noti e da cedimenti provocati proprio dai lavori stessi che non danno per il futuro nessun segno di arresto. E pensare che a  luglio 2023 venne notificato  al Prefetto competente la situazione di rischio estremo conseguente a eventi franosi di notevoli dimensioni verificatosi sul percorso.

Siamo dunque stati apostrofati come “perdigiorno e visitors dei fine settimana con magliette griffate” dagli Amministratori coinvolti che non hanno dimostrato responsabilità e capacità di dialogo davanti a dati scientifici e relazioni tecniche da noi consegnate. Accecati da una prova di forza a danno del territorio e della sua comunità in nome della sostenibilità, del turismo lento e dello sviluppo hanno dunque realizzato un’opera destinata a continui inarrestabili crolli. Continueranno dunque i soldi pubblici ad essere utilizzati per opere inutili e tecnicamente irrealizzabili già sulla carta? La Carnia ha bisogno di altro: di servizi, di economia, di recupero dei fondovalle.

Strada forestale al Rifugio Grego, incubatrice di nuovo dissesto?

Chi abbia raggiunto in questi ultimi anni il Rifugio Grego partendo da Malga Saisera, in comune di Malborghetto-Valbruna, si sarà certamente stupito nell’aver trovato, al posto del consueto sentiero, una strada enorme la cui larghezza supera per lunghissimi tratti i parametri progettuali. Parametri stabiliti per le strade camionabili di primo livello in: 3,50 metri la larghezza massima della carreggiata che nei tornanti può essere portata a 4,5 metri, più 0,50 metri di banchina laterale.

La carreggiata realizzata invece è larga 6 metri, certi tornanti scavati nella roccia misurano oltre 15 metri, tanto da poter ospitare due autocarri che si incrociano! Le scarpate a monte si estendono in maniera incomprensibile andando a erodere ulteriore spazio al bosco. In aggiunta e in aggravio l’opera interseca un franamento avente una superficie di oltre 2.000 metri quadrati e piuttosto profondo, al quale si è cercato di rimediare con maldestri tentativi di bonifica (palificate sparse sul corpo di frana), probabilmente causato dall’apertura del tracciato in progetto; processo franoso che ancora oggi incombe sul settimo tornante della nuova strada. C’è seriamente da chiedersi quanto questa strada serva a migliorare la selvicoltura, presupposto richiesto dal bando che ha finanziato l’opera, considerato che buona parte dell’originario bosco di grandi e maestosi faggi, insieme alla distruzione di prezioso suolo forestale, se l’è mangiato la strada stessa. E poi perché si permette di realizzare lavori abnormi, con spreco di risorse ambientali (suolo e bosco, innesco di fenomeni di dissesto) ed economiche, rispetto a una progettazione valutata e approvata da tutte le autorità competenti?

Lassù c’è sicuramente un noto rifugio alpino che necessitava probabilmente di una più diretta e modesta via di accesso da Valbruna; rifugio che non potrà che essere soffocato e sminuito da stuoli di auto e moto, mezzi che occuperanno il poco prato residuo antistante o che proseguiranno per la Val Dogna senza neppure fermarsi.

Strada al Rifugio Marinelli, si sentiva proprio l’esigenza di aggiungere un altro accesso in quota

Un altro progetto di viabilità era nato per collegare Casera Val di Collina e il Rifugio Giovanni e Olinto Marinelli, rifugio già servito da viabilità, con il nuovo tracciato parzialmente compreso all’interno di un sito di interesse comunitario e con versante sotteso al rifugio, lato Passo di Monte Croce, ripido e instabile .  In seguito a varie opposizioni di cittadini, del comune di Paluzza, delle  associazioni e in seguito a controperizia geologica prodotta  sui potenziali rischi specie sull’ultimo tratto, la strada è stata comunque realizzata, con parziali ridimensionamenti ma anche in questo caso sbancando ampiamente oltre la sezione prevista nel tratto più a valle dove sussistono i tornanti. Il tratto finale di 650 m di arrivo al rifugio è stato risistemato contenendo la sezione e quindi si spera che ciò non permetta in futuro transito di automezzi.

Breve riflessione sui primi 3 casi: un filo comune collega questi progetti viari come anche altri in atto o in progetto: l’intenzione di aprire strade carreggiabili di collegamento fra vallate e territori allo scopo prevalente di richiamo turistico (multifunzionalità delle strade forestali?) con una visione anacronistica secondo cui solo così si sviluppa il turismo in quota e in aree di rilevante interesse naturalistico e paesaggistico.

Due considerazioni si possono porre all’attenzione:

1) attualmente la nostra regione risulta di richiamo turistico proprio per le sue caratteristiche di naturalità, buona sentieristica ed a una accoglienza in veri rifugi alpini
2) la tipologia delle vallate e delle montagne di questo arco orientale delle Alpi non permette opere di infrastrutture importanti, al di là di quelle già esistenti o a supporto giustificato dalla gestione forestale, senza incorrere a lavori fortemente impattanti nell’ambito del dissesto idrogeologico.

Tappa sul Monte Santo di Lussari, la spianata di cemento di fronte all’omonimo Borgo

Sul Lussari, luogo simbolo che non aveva certo bisogno del Giro d’Italia per farsi conoscere (bastava comunque fare delle riprese dall’elicottero), andrebbe ribadito anche che le opere (allargamento e cementificazione della strada) sono difformi dalle autorizzazioni della Soprintendenza e dalle indicazioni del Piano Paesaggistico Regionale, e non corrispondono nemmeno al progetto che prevedeva l’utilizzo di un materiale drenante. Inoltre, fino al luglio 2020 (prima dell’inizio dei lavori) si sono svolte consecutivamente e senza problemi 31 edizioni della competizione internazionale “Lussari Mountain Bike”, segno che l’intervento della Protezione Civile (circa 6 milioni di euro) ha avuto il solo scopo di rendere possibile il transito dei ciclisti professionisti. Da un articolo apparso sul quotidiano Messaggero Veneto pare che negli ultimi mesi, evidentemente per ripulire dai detriti il manto stradale, il Consorzio Vicinale di Camporosso ha dovuto effettuare ben 44 interventi di “manutenzione”: gli eventi metereologici stanno dimostrando che alcune opere di sistemazione, si stanno dimostrando inadeguate al rischio idrogeologico.

La contrarietà all’arrivo del Giro d’Italia al Lussari è stata manifestata dalle associazioni ambientaliste fin dall’annuncio del progetto e perseguita fino all’evento sportivo e oltre. Il motivo? Le preoccupazioni per i danni arrecati all’ambiente dagli interventi di sistemazione della strada forestale che sale dalla Valsaisera, contrabbandata come interventi di messa in sicurezza della Protezione Civile (utilizzando impropriamente anche i Fondi Vaia); la certezza del danno d’immagine al Santuario del Monte Santo del Lussari che è pur sempre un luogo ritenuto sacro, dai fedeli di tre popoli; la preoccupazione per i danni, permanenti, conseguenti al Giro come l’utilizzo incontrollato della strada forestale e i relativi problemi di sicurezza nonché per la pressione di un turismo poco rispettoso.

Progetti programmati di nuove piste da sci a Tarvisio e Sella Nevea

Secondo il Cnr, il 2022 è stato l’anno più caldo mai registrato in Italia dal 1800 ed il 2023 lo sta superando. Come è ormai noto, l’aumento delle temperature influenza le nostre montagne, dove si sta registrando un’evidente diminuzione dei ghiacci e del manto nevoso. A questo fenomeno si aggiungono inverni sempre più brevi e una quota-neve ogni anno più alta. La nostra regione è particolarmente interessata a queste anomalie poiché si trova tra due ‘punti caldi’: le Alpi ed il Mediterraneo. Questo significa che se a livello globale l’aumento di temperatura attesa al 2030 è di 1.5°C, nella nostra regione questo aumento può arrivare ad oltre i 3°C. Dati non certo confortanti non solo per l’ambiente, ma anche per un’industria, come quella sciistica, che fa della sua materia prima la risorsa-neve.

Per questi motivi, l’Italia è tra i paesi alpini più dipendenti dalla neve artificiale con il 90% di piste innevate artificialmente. Come amministrare questa enorme richiesta di acqua in presenza dell’evidente fenomeno della siccità, peraltro legato anch’esso al riscaldamento globale. Basti pensare che per l’innevamento di base (30 cm di neve artificiale) di una pista da 1 ettaro servono un milione di litri di acqua e per la sua manutenzione durante l’apertura degli impianti ancora di più. L’energia elettrica necessaria agli impianti per tutte le Alpi ammonta a circa 600 GWh anno.

Sono numeri che spaventano (e che costano), soprattutto in un mondo che ha bisogno di energia e di acqua. Eppure, come se il problema non sussistesse, assistiamo periodicamente a tentativi di rilancio di un modello turistico ormai difficile da sostenere.

Così le montagne si riempiono di nuovo acciaio, di nuovo cemento, di nuovi cannoni sparaneve, di nuove disco-baite, mentre le vecchie strutture, abbandonate agli elementi, vengono intaccate dalla ruggine e sommerse dalla vegetazione. La nostra regione non è esente da questa smania di sviluppo insostenibile: sono previsti nuovi impianti di risalita, come la seggiovia/cabinovia Sella Nevea – Casere Cregnedul, e nuove piste da sci, come la pista Lazzaro nella foresta di Tarvisio. Sono anni che le associazioni ambientaliste stanno dicendo basta a nuovi impianti, basta utilizzare soldi pubblici per un modello di sviluppo perdente e il cui destino è segnato.

La montagna ha bisogno di investimenti, ma non in quella direzione: servono investimenti in infrastrutture logistiche, mezzi pubblici, ambulatori, punti nascita, banda larga, turismo lento e sostenibile. Si tratta quindi di cambiare paradigma narrativo per presentare le Alpi sotto una luce plurale, svincolata dalla monocultura dello sci. Solo così, diversificando l’offerta e prestando attenzione alle peculiarità locali, forse il turismo alpino riuscirà finalmente a diventare una risorsa “pulita”, uscendo da quella zona di ombre e ambiguità in cui è oggi intrappolato. Il progetto della pista Lazzaro che scende dal M. Florianca rappresenterebbe una profonda cicatrice nel paesaggio ancora integro del versante, costituirebbe disturbo e riduzione dell’habitat della fauna presente nella foresta,  ridurrebbe significativamente il patrimonio forestale e renderebbe il versante meno resiliente al rischio idrogeologico. Inoltre la  nuova pista da sci che dovrebbe scendere al di sotto dei 900 metri di quota, rappresenta in questi anni un unicum sulle Alpi, considerato che la linea di affidabilità della neve a fini turistici si colloca oltre i 1500 m (fonte ARPA FVG).

I cogeneratori della SIOT Tal a Paluzza, un percorso “inverso” alla transizione energetica.

Valle del But. Il progetto ha previsto una nuova stazione di pompaggio del greggio a Paluzza/Cercivento, assieme agli altri 3 progetti analoghi a S. Dorligo della Valle, Reana del Roiale e Cavazzo Carnico, volti all’efficientamento del trasporto del greggio da Trieste all’Austria.  Si tratta di sostituire fonte energetica: non più energia elettrica che per il 38% proviene da fonti rinnovabili per alimentare le pompe, ma metano per nutrire  una centrale di  cogenerazione per la produzione di energia elettrica e calore che dovrebbe servire a fluidificare il greggio.

A fronte di vantaggi economici per SIOT ci sarebbero solo svantaggi per l’ambiente e le popolazioni locali: maggior produzione di CO2, ed altri inquinanti quali CO e NOx, rumorosità di cui, ovviamente, bisogna tener conto per l’impatto locale e non. Inoltre come relazionano questi progetti dentro il percorso di decarbonizzazione dell’energia che la Regione ha dichiarato di voler conseguire addirittura nel 2045 con 5 anni d’anticipo rispetto al resto d’Europa? Come si giustificano 56 Mmc aggiuntivi di metano da prelevare ogni anno per 30 anni (?) dalla rete, se tutto il sistema energetico dovrà essere decarbonizzato?

Gli sforzi (con relativi investimenti) che tanti Comuni, cittadini e imprese di buona volontà stanno facendo per aumentare la quota di energie rinnovabili sul territorio verrebbero meno per diversi anni (3 – 5) con gli impianti SIOT per compensare le emissioni dei cogeneratori.

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