Il danno scolastico. Un libro per riflettere su scuola, cultura, politica e società

Trieste -Mentre la scuola è colpita in pieno dalle ondate della pandemia e sballottata tra lezioni a distanza e in presenza, scossa dalla critica all’alternanza scuola lavoro specialmente dopo la recente tragedia, ferita dalle manganellate inflitte agli studenti che vogliono far sentire la propria voce (mentre presidi e politici si sperticano in inviti alla partecipazione e al rispetto per i giovani) e sorpresa dal ripristino dell’esame di maturità tradizionale spacciato – come il rientro del pubblico a Sanremo – per un vagheggiato ritorno alla normalità, la recente pubblicazione del “Il danno scolastico” (Milano, La nave di Teseo, pagg. 270, € 19) completa degnamente il quadro non proprio confortante.

Si tratta dell’ultimo libro che Paola Mastrocola ha scritto con il marito Luca Ricolfi, ispirato dal volere dimostrare una tesi che non piace alla parte progressista del paese. Infatti gli Autori sostengono che la scuola, così come si è trasformata dopo un lungo processo, è una scuola che ha abbassato i livelli di valutazione, una scuola lassista e, quindi, che genera disuguaglianza tra alunni di classi socioeconomiche diverse invece di accorciare le distanze culturali e distribuire equamente le posizioni lavorative elevate . E fin qui niente di nuovo sotto il sole.

Ma quando si toccano le cause di questo processo, il colpevole risulta evidente: la responsabilità politica di questo abbassamento di qualità è della “cultura progressista” – sostiene Ricolfi – “che si è battuta per la democratizzazione della scuola (…) che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come diritto al successo formativo (…) che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o semplicemente erano contrari a rilasciare attestati”.

In sostanza, Mastrocola svolge una serie di osservazioni autobiografiche, accorate e partecipate, alla maniera della scrittrice che ha vissuto la scuola da studentessa e da insegnante. Racconta quale sia, secondo la propria esperienza, l’istruzione che funziona: quella – per intenderci – della parafrasi, degli appunti, dei voti anche brutti e delle poesie a memoria. Non quella auspicata da don Milani quando denunciava un eccesso di bocciature e di selezione nella scuola media.

Mastrocola vede le cose in modo soggettivo, conosce i meccanismi dell’istruzione e quelli che possono essere i suoi difetti. Ne parla abbondantemente e poi affida al marito – sociologo e docente di Analisi dei dati – il compito di dimostrare scientificamente la tesi riassunta dal sottotitolo del libro, ovvero “La scuola progressista come macchina della disuguaglianza”.

Nel condurre la dimostrazione, Ricolfi ricorre a una serie di formule con le quali analizza alcuni parametri socio culturali, come la meritocrazia e il grado di emancipazione che dovrebbero essere i motori della mobilità sociale, ovvero quello che dovrebbe distinguere la società moderna da quella medievale. Con l’inibire queste spinte, si è aumentata la distanza tra ceti benestanti e ceti svantaggiati.

In poche parole, quando la scuola non funziona, quando è troppo indulgente, chi ci guadagna è colui che ha una famiglia colta o capace di sostenere le spese per un’istruzione privata (ripetizioni incluse).

Se poi si vuole individuare il momento in cui la macchina della disuguaglianza (come gli Autori tengono a definire l’attuale sistema scolastico) ha iniziato a funzionare, non ci sono dubbi: l’anno è il 2000, quando con Luigi Berlinguer ministro dell’istruzione, “la scuola diventava un’impresa, si agganciava al mondo del lavoro, o meglio, tentava goffamente di assumere i valori e i criteri della produzione e del mercato”.

A parte il fatto che gli Autori si sono attirati le accuse di essere conservatori nostalgici e reazionari, avversari della scuola inclusiva e democratica, non tutto quello che sostengono è da buttare: per esempio il fatto che l’istruzione in Italia – ma all’estero le cose non vanno tanto diversamente – sia stata sottratta al modello culturale umanistico e consegnata alla dinamica aziendale e alla strategia del marketing (fin dalla Buona Scuola di Renzi), che si faccia più attenzione alla quantità di studenti promossi che alla qualità della loro preparazione (i numeri del successo scolastico determinano il successo dei dirigenti), che le classi siano troppo numerose, che i programmi diventino sempre più leggeri, che gli insegnanti siano soffocati da un mare di burocrazia… La lista sarebbe lunga.

Se vi è qualcosa da evidenziare, questo va ricercato nei dati che Ricolfi analizza e che rappresentano un anello debole nella catena dimostrativa: dice di essersi basato sui dati forniti dall’Istat e dai test Invalsi. L’Istat non si tocca, e alle critiche aspre e severe che da sempre si oppongono ai test Invalsi, Ricolfi risponde che hanno una sola utilità, ovvero quella di confrontare la qualità media dell’istruzione provinciale.

Infine ci sarebbe un’osservazione critica da fare. Non per salvare Luigi Berlinguer né la politica italiana sull’istruzione – che sappiamo aver messo la scuola sempre in secondo piano rispetto l’economia e la finanza – , va detto tuttavia che l’aziendalizzazione della scuola, con il conseguente tentativo di fare degli studenti una classe di lavoratori efficaci e obbedienti (e questo si nota nella reazione delle istituzioni di fronte alle manifestazioni di piazza), risale alle linee di politica economica elaborate da Maastricht in poi. Linee politiche di cui Luigi Berlinguer – come del resto anche Prodi, Berlusconi, Monti e Renzi  con i rispettivi ministri dell’istruzione – sono stati soltanto obbedienti esecutori.

Roberto Calogiuri

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