Cos’è più forte della pandemia? Oltre la movida e l’happy hour c’è…

I test Invalsi sono come la movida: inarrestabili. Niente e nessuno li può contenere perché obbediscono a leggi ineluttabili: la movida è determinata dalla legge dell’aperitivo serale e dal sacrosanto diritto all’happy hour. I test Invalsi – come da molti anni si va ripetendo – nei loro effetti a lungo termine sono regolati da leggi altrettanto rigide: le leggi del controllo socioculturale dei futuri lavoratori, regolato dalle leggi del profitto che a sua volta è regolato dalle leggi del capitale mondiale che è regolato dalla concorrenza economica tra continenti.

Perciò, in questi giorni, in molte scuole si tenta di travestire i test invalsi da attività di laboratorio. Questa forzatura permette di eludere il divieto di frequentare le scuole imposto dalla zona rossa e di proseguire col monitoraggio nazionale e simultaneo degli studenti italiani facendoli entrare nelle scuole.

Vale la pena segnalare ancora una volta che, sebbene il legame sia poco visibile ma analizzato in molte occasioni, la concorrenza economica globalizzata ha imposto alla politica europea alcune regole per salvare i mercati e la moneta del vecchio continente e, tra queste regole, vi è il controllo della formazione scolastica da parte dei principali gruppi imprenditoriali che controllano la finanza europea. Lo scopo è di creare una classe di lavoratori controllabili, manipolabili, precari, licenziabili. L’alternanza scuola lavoro e il registro elettronico hanno la loro parte di responsabilità. La didattica a distanza, anche se la si chiama didattica digitale integrata, determina anche un indebolimento dei rapporti umani e contrattuali. L’invalsi completa l’opera.

Al proposito, è il caso di ricordare che Mario Draghi, l’attuale primo ministro, come governatore della Banca d’Italia, auspicava già nel 2002 un “efficace sistema di valutazione delle scuole” come “complemento dell’autonomia scolastica”. Nel 2012 – fresco di nomina a presidente della BCE – dichiarava al Wall Street Journal  che il modello sociale europeo che dava priorità alla sicurezza del posto di lavoro e al welfare “è già morto”. Dopo “il buon lavoro fatto in Grecia”, c’è da aspettarsi coerenza programmatica.

Controllare la formazione scolastica è considerato uno dei perni della politica europea fin dal trattato di Maastricht, vale a dire fin da quando fu raccolto l’appello – lanciato dagli industriali europei tra cui De Benedetti e Umberto Agnelli – di combattere una tra le peggiori malattie: l’eurosclerosi, vale a dire la mancanza di flessibilità, innovazione e competitività in confronto a Giappone e Stati Uniti. Infatti fu Ronald Reagan che, qualche mese prima, aveva rimproverato agli insegnanti la scarsa preparazione degli studenti, aveva imputato alla scuola l’inadeguatezza nel valorizzare il “capitale umano” e a tutto il sistema educativo la responsabilità di rendere gli USA poco competitivi a livello mondiale. E di conseguenza Reagan ha stimolato una risposta da parte del resto del mondo, ha dato una scrollata a quello che improvvisamente è apparso come un sistema educativo (quello europeo) vecchio e superato, con una classe di lavoratori obsoleti e superati.

Sarà per questo che anche nei giorni di pandemia, restrizioni, didattica a distanza, tamponi, con tutta la serie di regole e restrizioni anti contagio, le scuole hanno dovuto elaborare complicatissimi protocolli per portare le classi davanti a un pc e poter consumare il rito del test Invalsi, sollevando anche qualche dubbio di coerenza sanitaria. Per poi rimandare tutto alla riapertura delle scuole, quando avverrà…

Per questo motivo, la valutazione è divenuto un cerimoniale obbligatorio e praticato negli stati europei e in quasi tutto il resto del mondo perché, maggiore è il numero di stati che partecipano alla valutazione, più accurato sarà il profilo dello studente medio mondiale.

In sostanza, da una parte si vuole che i test siano il vaccino contro l’eurosclerosi. Dall’altra, invalsi incarna il virus del controllo, della normalizzazione, dell’omologazione e del livellamento del sapere in cui il modello è sempre l’impresa. Dipende, ovviamente, dai punti di vista.

In ogni caso sostenere, come fa Andrea Gavosto – presidente della fondazione Agnelli -, che solo i test Invalsi possono stabilire la “verità” sugli apprendimenti, vuol dire togliere autorità e attendibilità agli esami scolastici, minimizzare la professionalità degli insegnanti e, nel medesimo tempo, rivestire di certezze cartesiane un dispositivo di cui si è dimostrata la a-scientificità e la relatività socio ambientale.

Ciononostante si profila un altro assunto pericoloso: quello di voler somministrare i test in tempo di pandemia per determinare la quantità di perdita di apprendimento causata dal Corona virus. Lo dicono i dirigenti scolastici in Italia e, guarda caso, anche Joe Biden: tutti confidando di poter dare una pagella agli insegnanti ma commettendo vari errori epistemologici. Vale a dire che non c’è un precedente storico con cui compararli, i programmi non sono omogenei tra le scuole dello stesso grado (ci sono le indicazioni nazionali), e non c’è possibilità di misurare la supposta perdita di crescita su basi neurologiche  o evolutive.

Di concreto, invece, vi è la possibilità che i risultati invalsi e le osservazioni che ne derivano possano corroborare le prossime scelte sulle politiche scolastiche e le riforme preparate dal Recovery Plan. Agli inizi dello scorso febbraio, i grandi quotidiani nazionali diramavano le consuete osservazioni degradanti e avvilenti sul corpo insegnante elaborate dal solito tandem Invalsi e fondazione Agnelli: i prof facciano di più, il 60% potrebbe fare meglio, promosso solo un insegnante su quattro, solo un quarto degli insegnanti è capace di spiegare in modo strutturato… e così via da Repubblica a Vanity Fair.

È chiaro che per evitare la gogna mediatica, le frecciatine sull’insegnante fannullone e incassare le stoccate dei presidi, molti insegnanti addestrano i propri studenti focalizzando la preparazione sui test invalsi, chiudendo così uno tra i circoli più viziosi: quasi tutti i libri di testo contengono esercizi propedeutici per i test invalsi che moltissimi insegnanti impartiscono: in altre parole si abituano e si condizionano insegnanti e studenti a corrispondere alle richieste dei test invalsi, esercitando competenze generalizzate e superficiali invece di  conoscenze individuali e profonde.

Così si vuole che avvenga la resa al controllo e alla colonizzazione del sapere da parte di normalizzazione, omologazione e livellamento del sapere in cui il modello è sempre l’impresa. E così la scuola, invece di rimanere presidio culturale, costituzionale e libertario, si avvia a essere uno strumento del mercato liberista.

Roberto Calogiuri

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