Mai troppo tardi per parlare di Joker e del suo quadrato nero

Fvg – Quante volte nella vita ci siamo trovati di fronte all’impossibilità di proseguire per una strada che sembrava certa, ma che ad un certo punto diventa foriera di una serie di situazioni che si ripropongono ciclicamente con un risultato sempre poco edificante? Ripetiamo a noi stessi che d’altronde non si può fare altrimenti, senza renderci conto che lentamente stiamo arrivando al grado zero.

Il film Joker del 2019, diretto da Todd Philips, presentato alla Mostra del cinema di Venezia, mette in scena un protagonista che vive continuamente a cavallo di situazioni analoghe: di giorno lavora come pagliaccio, di notte si sforza di essere un comico di cabaret, ma il suo essere pagliaccio lo porta a divenire la macchietta di se stesso, continuamente in bilico tra gli insuccessi e la crudeltà della società in cui vive.  Seguito dai servizi sociali perché depresso, controllato da farmaci che ne assicurano l’equilibrio psichico, afflitto da un disturbo che lo porta a ridere convulsamente anche nelle situazioni meno indicate, vive con la mamma bisognosa di cure e con il suo sogno di poter diventare una star del palcoscenico. Passa la vita cercando di migliorarsi e di integrarsi in una società che lo vede come un patetico e infruttuoso pagliaccio, senza talento. Lentamente il protagonista Arthur Fleck, interpretato in maniera magistrale da Joaquin Phoenix, arriva al suo grado zero.

Il filosofo Slavoj Žižek, nel suo trattato “Una lettura perversa del film d’autore”, si interroga sul rapporto tra il protagonista del film e un’opera d’arte che ha sempre sollevato molte ilarità tra gli studenti della scuola superiore: il “Quadrato nero su fondo bianco” di Kazimir Malevič del 1915. L’artista intende, con quest’opera, spingere l’arte astratta al suo massimo grado di pulizia e semplicità, arrivando a non/rappresentare la figura geometrica più semplice e statica, il quadrato, utilizzando la negazione del colore, lo spegnimento della luce, ovvero il nero. Il fondo di puro contenimento non può che essere bianco.  Malevič arriva al grado zero della pittura, interrogandosi sul percorso da fare e arrivando alla conclusione che quando ci si trova al grado zero, l’unica possibilità è attraversare la soglia, viverla completamente, passarci attraverso e attuare una trasformazione.

Ecco allora che Arthur Fleck, messo nella condizione di non poter più proseguire, ma nemmeno tornare indietro, opera una trasformazione catastrofica e autodistruttiva. Si attraversa accogliendosi nel suo più intimo essere, dà sfogo alla sua parte più oscura. L’abito elegante e la faccia truccata diventano l’icona stessa di una parte della popolazione che si ribella alla condizione di povertà e ingerenza alla quale è stata condannata da un sistema capitalistico crudele.  Arthur Fleck è senza volerlo, un messaggio politico, ma sua vera forza sta appunto nel non volerlo essere. Arthur non s’interessa alla politica corrotta e logorante. Il suo obiettivo è quello di far ridere, di portare gioia nella vita di tutte le persone, così come gli aveva sempre consigliato la mamma. Il protagonista conserva questa promessa fatta, anche dopo la scoperta di agghiaccianti rivelazioni sul conto della propria madre.

D’irrilevante importanza a questo punto il collegamento con la storia di Batman e quello che Joker diventa nell’immaginario DC. Il film starebbe in piedi da solo, con una struttura narrativa importante e con una prova d’attore veramente notevole.

Il film si è aggiudicato il Leone d’oro alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincendo inoltre due Golden Globe e due Premi Oscar su ben undici candidature, contribuendo in modo determinante a inserire nella categoria dei film pluripremiati, le pellicole con personaggi appartenenti al mondo dei fumetti.

Raimondo Pasin

Print Friendly, PDF & Email
Condividi