Un eroe di Asghar Farhadi: non solo una storia iraniana

Fvg – Che vita può condurre una persona onesta in una società che dimostra di essere organizzata secondo parametri comportamentali tali da risultare a volte al limite dell’onestà? Come ci poniamo rispetto alle nostre azioni, considerando che non tutto ciò che si può fare, può essere eticamente giusto? Il dubbio potrebbe sembrare di natura trascendentale, ma nella realtà narrativa diventa un monito assolutamente quotidiano: se non ti organizzi secondo i nostri parametri, risulterai sempre una persona da guardare con un certo sospetto, e non occorrono belle facce, belle parole o buone intenzioni, ma azioni, per la soddisfazione di tutti.

Asghar Farhadi torna a girare in Iran e il suo Un eroe (Qahremān titolo originale) risulta essere una sorta di riflessione sulla società Iraniana, sui sentimenti unilaterali ed eccessivi che si sistemano sulla superfice dell’accaduto, come pezzi di una enorme scacchiera. I personaggi muovono i loro interventi secondo la strategia dettata dal potere, dall’orgoglio, dalla reputazione da salvare e dai cuori nobili. Certo è molto più semplice rimanere all’interno di una rispettabilità, se non ci trova in galera per debiti, ma nonostante tutta l’ingiustizia e l’aggressività subita, al protagonista rimane continuamente il tarlo della pulizia della sua immagine.

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2021, il film si presenta con una carica Neorealista, nel cartellone è già stato paragonato a Ladri di Biciclette, e la cosa fa riflettere su due fronti.

Il primo è quello dell’inevitabile narrazione basata sulla realtà, che sempre si contrappone alla spettacolarità e alla magia, come necessario antidoto alla menzogna della finzione. Farhadi propone una regia a misura d’uomo, la macchina da presa non si svela in virtuosismi eccessivi, rimane pacatamente agganciata allo sguardo neutro dello spettatore, i personaggi potrebbero sembrare, come vuole la tradizione del Neorealismo da Rossellini a Pasolini, presi direttamente dalla strada, tanto coincidono con essa. C’è molta orgogliosa povertà e una voglia di riscatto, di serenità economica e sociale, la stessa che la società occidentale ha raggiunto e che molte volte è alla base del malessere percepito. Ma, come spesso abbiamo visto nelle pellicole italiane del dopoguerra, la mancanza di denaro spesso coincide con una mancanza di dignità e di credibilità. La stessa dignità e credibilità che il protagonista Rahim insegue per tutta la vicenda.

Il secondo punto di riflessione è invece riferito alla natura stessa della definizione. Trovo un po’ eccessiva la dicotomia Fiction – Non fiction: perché un’opera che tratta temi sociali, che descrive una mentalità, una tradizione, un sentire all’interno di una difficoltà, deve per forza essere catalogata Neorealista (che nel parlato comune corrisponde a un bel film da non vedere in compagnia e che sicuramente guadagnerà poco al botteghino)? Forse, perché è insito in noi il concetto di intrattenimento leggero, mentre tutto ciò che ci fa riflettere diventa impegnativo.

Eppure il film propone una sceneggiatura di ferro, dove tutti gli elementi si concatenano creando una narrazione fluida, guidando lo spettatore alla risoluzione dei fatti. La stessa borsa con i soldi diventa una sorta di mcguffin hitchcockiano, con la sua necessaria presenza nella narrazione ma la sua quasi assoluta assenza dallo schermo. E come direbbe Hitchcock, cosa c’è di più fiction di questo?

Infine ancora una volta ci troviamo a fare i conti con la comunicazione di massa, televisiva e social, ambienti fangosi e perniciosi.  La legge della notizia/spettacolo non risparmia nessuno, neanche gli autentici sentimenti di un bambino con evidenti disturbi del linguaggio, per creare una contromossa social nella scacchiera della demenza degli adulti.  Il nostro protagonista è l’eroe, quello vero, magari non senza macchia e nemmeno senza paura, ma riesce a distinguere l’umano del disumano, l’inaccettabile dal “fanno tutti così”. Esiste un castello e una principessa per lui?

Raimondo Pasin studia all’Accademia delle belle Arti di Venezia e frequenta il corso di mass media tenuto dal Docente Carlo Montanaro. In seguito si abilita all’insegnamento di “Linguaggio per la cinematografia e la televisione” all’Accademia delle belle Arti di Bologna. Insegna cinematografia al corso audiovisivo dell’istituto Galvani di Trieste fino al 2018. Attualmente insegna Disegno e Storia dell’arte al Liceo Galilei di Trieste.

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