Una «Ballata» epica per Johnny e Jill al Rossetti

Ha debuttato anche al Rossetti di Trieste “La Ballata di Johnny e Jill”, una importantissima co-produzione dello Stabile del Friuli-Venezia Giulia con altri teatri europei per una pièce nuova e intrigante del drammaturgo contemporaneo Fausto Paravidino.

Una scommessa azzardata, anche se vinta, quella dell’autore, che ha voluto immergersi nel tessuto complesso del suo testo interpretandolo pure come attore e curandone la regia. Scelta arrischiata  perché l’intenzione di raccontare al di là del copione con le immagini sceniche che si snodano lungo tre ore di spettacolo, avrebbe potuto scadere in una ridondante eco della sua scrittura, banalmente ripetendo e sottolineando.

Invece l’anima del regista ha vinto con buon vantaggio quella dello scrittore e Paravidino è riuscito ad interpretare il proprio testo offrendo al pubblico ulteriori angolazioni per differenti piani di lettura, bene equipaggiato come era anche di uno staff artistico armonicamente coeso, ottimi interpreti e una cornice estetica assolutamente efficace. Controcorrente e interessante in questo nostro mondo rapido e frantumato, richiedere un tempo così dilatato di riflessione e di incanto.

La «Ballata» è incentrata attorno all’archetipo del biblico Abramo, creatore con la sua immaginazione di mondi possibili e ciò solo per aver riposto la propria fiducia in una promessa che è un sogno. Qui Abramo è Johnn, un venditore di pesci che ama descrivere con i colori della propria fantasia a dispetto dell’ottuso realismo di chi lo circonda. La sua compagna di vita è Jill, una riedita Sara della Bibbia, che lo segue nel suo viaggio avventuroso da anni Ottanta verso una terra dove forse scorreranno latte e miele, capace però anche di precederlo nel ritrovare quell’istinto onirico a volte accantonato a causa delle avversità. I due si sostengono, si amano, litigano, condividono il sogno fino a che esso si stempera inevitabilmente  fra i colori degli abiti di una noiosa borghesia americana per riapparire endemico nella nuova generazione dei millenials.

Il viaggio dei due protagonisti è un viaggio di speranza, come quello di tanti che oggi attraversano il deserto con il passeur più a buon prezzo. Come quello che finisce con la morte di chi anonimamente li accompagna disperata. È un percorso turbolento e drammatico, come di chi subisce violenze incomprensibili o le prepotenze del faraone di turno, reo solo di voler realizzare il proprio sogno.

Un itinerario introspettivo crudo e feroce di fronte alla propria infedeltà a quel principio di “resa assoluta” all’eccedenza della vita che il sogno aveva inizialmente loro indicato. È un cammino esistenziale che indurisce il cuore di fronte a persone ridotte a aggetto per i propri scopi; che proietta inesorabilmente nella vacuità del sogno americano ben profetizzato da Andy Warhol in quei dieci minuti di popolarità che tutti aspirano ad avere.

Un’impresa epica quella di Johnn e Jill, incapaci di comprendere quanti incontrano, come le differenti maschere che si rivolgono loro in tanti idiomi, a volte incomprensibili,  e che animano quel volgare, becero frastagliato esistere e proiettano il pubblico nell’abisso dell’incomunicabilità contemporanea.

Il dramma è ironico, la tragedia addirittura sarcastica, ma deteriora l’animo dei protagonisti e alla fine dei loro giorni non sanno più riconoscere che l’ombra dei propri sogni: il nuovo Abramo, davanti alla tomba della sua sposa riesce ancora, ma a malapena, a ricordare il pesce giallo che colorava le immagini della sua gioventù.

In scena a Trieste fino al 10 febbraio.

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