Incendi e riforestazione: le indicazioni dell’esperto al termine di un’estate devastata dal fuoco

FVG – Uno dei fenomeni più distruttivi a livello ambientale è sicuramente l’incendio boschivo, che azzera e distrugge l’ecosistema forestale. Un fatto reso purtroppo sempre più evidente dalle devastazioni subite quest’estate dai boschi del Carso e del Friuli.

Di fronte a questa grave ferita all’ambiente è opportuno per tutti – operatori, governanti e cittadini – essere a conoscenza di tutte le conseguenze del fuoco sulla natura che ci circonda e che è patrimonio comune dell’umanità.

Con un impegno che va anche a rischio della vita – lo ha dimostrato la tragica morte di Elena Lo Duca, agente di Polizia e volontaria della Protezione civile – l’intervento per domare gli incendi ed evitarne il più possibile l’espansione è immediato e senza risparmio di uomini e mezzi.

Riforestazione e rischi connessi: ne parla il professor Spada

Una volta spente le fiamme e bonificato il terreno, emerge tra i cittadini e le amministrazioni l’intento di aiutare, in tempo breve, la ripopolazione dei territori colpiti da parte di piante ed animali.

Per quanto lodevole nelle intenzioni, questa operazione però è molto rischiosa e rischia di provocare più danni che benefici.

A spiegarlo è il professor Francesco Spada, per anni docente di Botanica sistematica e Fitogeografia alla Sapienza di Roma, in un’intervista rilasciata qualche giorno fa all’AGI (Agenzia Giornalistica Italia).

Oggi il prof. Spada è “studioso ospite” presso l’Istituto di Ecologia Vegetale e Genetica dell’Università di Uppsala in Svezia.

Per capire come mai il rimboschimento “artificiale” sia inutile se non dannoso – sostiene Spada – bisogna prima sapere cosa accade dopo che una foresta è bruciata.

La foresta brucia per sua natura poiché è ricca di legno ed altri materiali combustibili. Spesso capita che una foresta finisca il suo ciclo vitale con un incendio (alcune teorie scientifiche lo individuano come destino comune a tutti i boschi) per poi rigenerarsi tramite una nuova generazione di alberi.

Dopo un rogo, infatti, le prime specie arboree che ripopolano il terreno sono quelle con i semi alati, trasportati da venti o uccelli (ad esempio pioppi, salici, betulle, frassini, aceri). Anche le bacche non tardano ad arrivare. La maggior parte degli alberi (eccetto le conifere) ricrea nuovi getti dai ceppi arsi. La macchia mediterranea è maestra in questo.

Il tempo che la natura impiega per ricostruire le foreste è decisamente lungo, ma non meno di quanto lo sia il rimboschimento umano. Le foreste della macchia mediterranea (formate principalmente da alberi sempreverdi) impiegano dai 20 ai 30 anni per tornare alla situazione iniziale. Più gravi sono gli incendi alle foreste secolari. Questi ecosistemi pluricentenari sono più stabili e in equilibrio: una condizione a cui tutte le foreste dovrebbero mirare.

Falsi miti sulla biodiversità

Spesso una grande quantità di specie vegetali colonizzano gli ambienti arsi creando quella che noi – ingenuamente – chiamiamo biodiversità. Per contro, un territorio inizialmente popolato da poche specie di alberi non può essere ripopolato da una moltitudine troppo elevata di nuove specie, perché l’ecosistema muta. Negli ecosistemi circoscritti, per natura, è presente solo un piccolo numero di specie arboree.

La biodiversità è considerata da molti un valore. Erroneamente associamo una grande quantità di specie vegetali alla parola biodiversità, ma le foreste “a mosaico” (aree boschive alternate ad aree aperte), ricchissime di specie vegetali e animali, sono meno sostenibili delle foreste originarie. Tuttavia ci sono più familiari e per questo continuiamo a preferirle alle foreste primitive.

Rimboschimenti poco saggi

Le iniziative di rimboschimento derivano da una mentalità interventista molto diffusa, avviata nella seconda metà dell’800. Questa pratica è potenzialmente molto dannosa per l’ambiente.

Le specie che vengono piantate artificialmente molte volte non sarebbero mai cresciute spontaneamente su quel determinato territorio, perché non appartengono quasi mai al genoma delle popolazioni locali. Le loro caratteristiche genetiche non sono compatibili con quelle del posto. Si crea quindi una discontinuità sul territorio, dove ci si può imbattere in veri e propri boschi di arbusti estranei alla vegetazione locale.

Sul nostro Carso, ad esempio, le riforestazioni avvenute tra il 1882 e il 1926 hanno introdotto due specie non autoctone quali il pino nero e la robinia.

I pini sono stati una delle specie più utilizzate per ripopolare ambienti forestali, grazie alla loro facile riproducibilità in vivaio. Non è raro quindi trovare pinete (anche molto estese) un po’ ovunque. Il pino tuttavia, a causa della resina e degli aghi, è una delle specie più infiammabili.

Il ruolo del sottobosco

Un’altra azione a rischio – prosegue il professor Spada nella sua lunga intervista – è la pulizia del sottobosco, una pratica molto diffusa. La logica è la seguente: meno legna c’è e meno gli incendi si diffondono. La pulizia del sottobosco però riduce l’umidità, rendendolo “più infiammabile”. Inoltre si creano delle aperture tra le chiome che favoriscono la crescita di specie erbacee. Si ha quindi un aumento del rischio incendi, l’effetto contrario a quello desiderato. Non meno grave è la distruzione del vero e proprio sottobosco, costituito da alberi giovani e piante erbacee proprie del territorio.

Possibili linee di intervento

Come tutelare quindi i nostri boschi e le nostre foreste dal pericolo incendi? Ecco cosa suggerisce lo studioso: innanzitutto bisogna inquadrare il tipo di incendi che si verificano sul nostro territorio.

Ciò che è certo è che l’autocombustione non si verifica mai nei nostri climi temperati. I roghi provocati da fulmini necessitano di fulmini a ciel sereno, evento rarissimo. Si può affermare quindi che la quasi totalità degli incendi ha origini dolose o colpose, cioè intenzionali o provocate da disattenzioni.

La vigilanza svolge quindi un ruolo fondamentale nel prevenire eventi di vasta portata, ma negli ultimi anni ha perso importanza ed è secondaria. Per non impiegare decine di migliaia di uomini basterebbero i droni, che ad oggi sono reperibili ovunque ma non sono ancora utilizzati ampiamente in questo campo. Grava anche il passaggio di competenze dall’ex Corpo Forestale ai Carabinieri.

In alcune regioni (ad esempio in Piemonte) esistono delle associazioni che in alcuni comuni svolgono un’opera di vigilanza e spegnimento molto efficace; ciò però non basta a livello nazionale.

Per quanto riguarda l’opera di spegnimento dei focolai e dei roghi più estesi, in alcuni casi il guadagno viene messo prima dell’ambiente: anche quando si parla di incendi. Un esempio sono gli utilissimi e richiestissimi Canadair, che sono in mano ad aziende private. Il costo di questi mezzi è a tempo (più tempo vengono utilizzati più bisogna pagare per il loro intervento): ecco spiegato come mai negli ultimi anni il tempo di spegnimento degli incendi è in progressivo aumento.

Anche l’aumento del turismo in foresta, che vede tra i fattori di sviluppo anche l’innalzamento delle temperature, aumenta a sua volta il rischio incendi.

È bene quindi riservare un maggior riguardo per scongiurare questo rischio.

Inoltre è bene essere informati sulle conseguenze che subisce l’ambiente non solo dall’incendio in sé ma anche dalle operazioni di bonifica successive.

Qui il link all’intervista completa: https://www.agi.it/scienza/news/2022-08-26/foreste-cosa-accade-dopo-incendi-intervista-spada-17847756/

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