Alternanza scuola lavoro. La prova che tutti i governi sono uguali e l’immagine di una società che potrebbe non piacere

Trieste – L’alternanza scuola lavoro. Bella o brutta che sia, buona o cattiva, di fatto è la prova della continuità tra governi di colori diversi. E anche della subordinazione  degli esecutivi succedutisi in Italia verso le politiche europee. E, indirettamente, d’oltreoceano…

A seguirne le tracce a ritroso, partendo dalla legge 107 del governo Renzi, si scopre un percorso che non è più – né soltanto – didattico o pedagogico, ma che conduce a precise richieste di natura economica e aziendale attraverso le indicazioni di Confindustria e le prescrizioni del Parlamento europeo.

Ritrovare le tracce di questo percorso non è difficile.

Nella legge 107, al comma 7 lettera “O”, tra gli obiettivi prioritari vi è “l’incremento dell’alternanza scuola-lavoro nel secondo ciclo di istruzione” che sarà determinante perché confluirà nel profilo digitale dello studente e disegnerà un’immagine che porterà sempre con sé.

Più giù, il comma 33 delinea l’attuazione dell’alternanza richiamandosi al decreto legislativo del 15 aprile 2005 n. 77, vale a dire a un provvedimento preso dal governo Berlusconi III, il che basterebbe a provare l’identità di intenti tra esecutivi di matrice politica, almeno di nome, opposta.

Nel mezzo c’è la riforma Moratti del 2003, con cui l’alternanza è introdotta è definita come una tra le maggiori novità, vantata come il “ponte” tra scuola e impresa. Ma anche tra scuola italiana e indicazioni europee.

Infatti, il tutto è auspicato, prima ancora, nel 1997, (epoca Prodi I), negli Annali della Pubblica Istruzione, intitolati alle Conoscenze fondamentali per l’apprendimento dei giovani nella scuola italiana dei prossimi decenni in cui si sottolinea, tra le altre cose, che l’alternanza scuola lavoro è tra le richieste di Confindustria che considera la “cultura d’impresa” un soggetto educante e determina il futuro dell’istruzione italiana.

In effetti, che l’impresa debba prendere il posto della scuola, se non almeno affiancarla, è un obiettivo già presente le Libro Bianco della UE di Édith Cresson del 1995, dove si afferma che l’alternanza è la miglior forma di cooperazione tra scuola e impresa e – soprattutto  – che quest’ultima prenderà il posto della famiglia.

Un po’ prima, siamo nel 1993, è Jacques Delors col suo Libro Bianco che insiste nel dover adeguare la preparazione dei giovani al mercato del lavoro creando un legame tra istruzione e formazione. In questo, Delors non fa altro che tradurre operativamente l’articolo 165 del Trattato sul funzionamento della UE, con cui nel 1992 a Maastricht si decide che l’Unione Europea ha competenza in materia di istruzione scolastica.

Del resto, l’Europa non fa altro che applicare quanto nel 1989 la Tavola rotonda europea degli industriali sostiene essere vitale per i mercati, vale a dire “un’associazione tra scuola e impresa”. Più tardi, dirà anche che la responsabilità della formazione dev’essere assunta dall’industria e che la scuola dev’essere subordinata al mondo economico e alle sue esigenze.

Gli effetti di tutto ciò già si vedono nei programmi alleggeriti, nei libri assottigliati, nella didattica introdotta dai test Invalsi, nella pratica scolastica che tenta di abbandonare i banchi per le più gradevoli e meno impegnative piattaforme digitali. Quelle della “gamificazione”, dove tutto è gioco e l’impegno conoscitivo e critico viene considerato inutile e ingombrante.

A chiedersi quale sia lo scopo di tutto ciò c’è il rischio di cadere nella fantascienza.

Se questa linea corrisponde a un percorso sensato, non dovrebbe essere difficile concludere che l’alternanza scuola lavoro faccia parte di una strategia economica molto chiara e a lungo respiro.

Al momento, l’alternanza determina un monte ore totale enorme: ogni tre anni, circa 600 mila studenti svolgono una media di 300 ore ciascuno. Una quantità gigantesca di ore di lavoro prestato senza retribuzione, quasi mai in linea con il piano degli studi, spesso degradato e degradante.

Se è vero che l’alternanza è il modo in cui l’impresa e l’industria vogliono entrare nella scuola e sostituirsi alla famiglia, non ci si stupirà se ci porteranno dentro anche le loro caratteristiche peculiari: concorrenza, competizione, management, marketing e privatizzazione.

Ma soprattutto la creazione di una classe di lavoratori docili, flessibili, facilmente governabili e controllabili, disposti a svolgere qualunque mansione, inclini a ringraziare per aver lavorato invece che essere pagati, a essere licenziati via whatsapp.

Se poi ci si chiede il perché di tutto questo, è sufficiente guardarsi attorno: i mercati languono, la produzione rischia di ristagnare, i consumi devono essere sollecitati continuamente e si deve colmare il ritardo produttivo nei confronti degli USA.

Anche a chi è digiuno di economia appare chiaro che, non potendo svalutare la moneta unica, per rilanciare produzione e consumi non rimane che svalutare il lavoro. Ed è quanto sta avvenendo facendolo passare per necessità curricolare e pedagogica.

Purtroppo questa strategia si propaga attraverso la scuola, l’unico luogo che raccoglie tutte le giovani risorse di uno società. Ma per passare attraverso la scuola, deve trovare una conformità di intenti politici che superi l’appartenenza a un partito.

E infatti così è stato.

Non rimane altro che immaginare, a proposito di fantascienza, come sarà la nostra società nel momento in cui entreranno nel mondo del lavoro quegli studenti che ora sono formati dall’alternanza scuola lavoro e abituati a essere controllati dal registro elettronico.

Non così accade in Germania. Lì la chiamano formazione duale, è un patto tra impresa e sindacato, è articolata in 350 profili professionali e, soprattutto, è retribuita. In Germania uno studente in alternanza guadagna fino a 1.150 € al mese, che corrispondono circa a 2/3 di una retribuzione piena. Lì lo Stato si fa garante di una formazione professionale adeguata e finanzia tutte le spese . (Fonte Ambrosetti).

Evidentemente il dialogo tra scuola e impresa può funzionare se il mediatore è uno stato che ne assume controllo e responsabilità.

[Roberto Calogiuri]

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