Il ministro e la grammatica. Se la linguistica diventa una questione politica

Trieste – Non si può pretendere che, seduto sullo scranno del ministro dell’istruzione, ci sia sempre una persona istruita: per esempio… un dotto linguista come Tullio De Mauro.

Non si può pretendere nemmeno che chi riveste questo incarico sia perfettamente istruito. Perché, evidentemente, i ministri non sempre si intonano con i ministeri che gli vengono assegnati.

Se così fosse, ogni ministero avrebbe uno specialista. Ma nel nostro sistema attuale così non è. E nel caso specifico, purtroppo, la dissonanza si nota in maniera clamorosa.

Infatti Valeria Fedeli, senatrice PD, attuale ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, non è particolarmente intonata con il proprio ruolo. La prova sta nell’impietoso rilievo che la (perfida) stampa dà a quanto i linguisti di una volta definirebbero capestrerie o scerpelloni. Non è, quindi, una questione di genere

Niente di grave, s’intende. È solo che un settore delicato come quello della scuola, dove si sta col fucile spianato a rilevare strafalcioni o errori, vorrebbe accortezza e cura nella comunicazione. Così, almeno per una questione estetica oltre che etica.

Insomma: si vuole che chi si trova alla guida dia l’esempio, che ci sia corrispondenza tra predicare e razzolare, che si coniughino la pratica e la grammatica e non che si contrappongano.

Quindi niente misericordia per il ministro dell’istruzione che sbaglia modi e tempi dei verbi o gradi dell’aggettivo.

In definitiva, si accettino pure tutte le attenuanti del caso. Ma rimane un forte sospetto che pesa su chi vuole dimostrare che la Fedeli, in realtà, non sbaglia.

Nella fattispecie, è noto l’episodio in cui il ministro, parlando della già dibattuta questione dell’alternanza scuola lavoro, auspica “percorsi di assistenza sempre più migliori”.

Quindi, come ai tempi di Alessandro Manzoni, anche questa volta si apre la discussione se sia corretto oppure no quel più davanti a un comparativo di maggioranza. Perché – vuole la logica grammaticale, la semplicità e il buon senso – sarebbe bastato un elementare e più corretto “sempre migliori”.

Nel coro di condanna, una voce a favore svetta su tutte: quella di Stefano Bartezzaghi, laureato in semiotica al DAMS con Umberto Eco, figlio e fratello d’arte, sulla cui dottrina nessuno può aver nulla da dire.

Sulla dottrina di Fedeli, a dire il vero, ci sarebbe qualcosa da dire se non altro per il curriculum che ha fatto molto discutere e indignare, e per il fatto di essere recidiva sul piano della corretta espressione.

Bertezzaghi, tuttavia, assolve Fedeli: sostiene che il sempre lega con più e non con migliori. Quindi non c’è errore. Un po’ come chi sosteneva che scambiare il diploma della ministra per una laurea è un semplice atto di leggerezza lessicale.

Qui sta il busillis: chi vede il più legato al successivo migliore, e legge più migliore, dice che Fedeli sbaglia, com’è solita fare data la sua preparazione scolastica che si pretende poco approfondita. Chi vede il più legato al precedente sempre, e legge sempre più, libera Fedeli dall’accusa di ignoranza grammaticale.

Diventa quasi una questione di fede. Sicuramente di prospettiva.

Eppure la grammatica è chiara.

E quindi, a chi credere? Alla chiarezza semplice e perentoria della grammatica italiana, o allo studioso di chiara fama che scrive su Repubblica e sull’Espresso, già membro della giuria di San Remo edizione Fazio-Littizzetto?

Ovviamente ogni riferimento è intenzionale, perché potrebbe fare luce sulle motivazioni politiche dello studioso. Vale a dire che come Bartezzaghi legge quel più legato a sempre, così si potrebbe leggere la sua assoluzione della Fedeli legata a una convinzione politica che gravita attorno l’asse Repubblica-Espresso-Fazio.

Per di più, cosa di non poco conto, tra il ministro dell’istruzione e l’esperto semiologo chi si assumerà la responsabilità di dare un indirizzo a studenti e insegnanti sulla questione del più migliore? Si potrà dire o no? Si segnerà errore oppure no? Val più la pratica o la grammatica?

Ecco perché si dovrebbe ritornare a una attenzione più profonda e indipendente sulla lingua italiana. Perché è ovvio che se Fedeli fosse stata più attenta (colta, informata..?), avrebbe tralasciato quel fatidico più e non ci sarebbe stata nessuna polemica, nessuna spaccatura a metà tra innocentisti e colpevolisti.

Una volta andavano di moda i linguaioli, quegli scrittori che spesso tenevano rubriche di lingua sui principali quotidiani (qualcuno ricorda Leo Pestelli o Luciano Satta?) che erano un punto di riferimento e disquisivano, a esempio, proprio sull’uso del più.

Se la riflessione sulla lingua italiana fosse ancora viva, così come la lettura degli autori italiani, si saprebbe che Gadda – nelle Meraviglie d’Italia – scrive “…ci si mette il vestito più migliore” ma ne prende le distanze specificando in una nota che “L’autore deferisce alla parlata dei personaggi”. Ma in Eros e Priapo c’è addirittura un più meglio, questa volta senza nota.

E quindi: si può dire che Fedeli – con i sui congiuntivi e la sua laurea millantata, colei che un editorialista ha definito la peggiore ministra di sempre – abbia scienza e coscienza linguistiche tali da assumersi la responsabilità di flettere la lingua a usi così raffinati o inconsueti?

O si tratta, piuttosto, di una confusione (voluta) tra piano grammaticale e politico?

Roberto Calogiuri

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